En los días siguientes, reunimos toda nuestra paciencia y pusimos en marcha en casa la estrategia aprendida en la sesión. Para evitar la presión del horario, por la mañana quitábamos el reloj, para poder dedicar a la rutina del vestirse todo el tiempo que hiciera falta. Preparábamos dos alternativas por cada prenda para que Diego pudiera elegir, y de esa forma le dejamos un poco de margen y le redujimos la presión, pero procuramos rotar todas las camisetas y pantalones que tenía, para vencer su rigidez. A veces le tocaban dos alternativas odiadas, y se enfadaba, pero aplicábamos el método del acorralamiento gradual y los premios, y acababa poniéndose todo, en más o menos tiempo.
Mantener la calma era, para nosotros, el reto mayor. Sigue siéndolo, porqué las crisis y las malas rachas vuelven a aparecer de vez en cuando, y el desgaste emocional y psicológico en esos momentos es brutal. Cuando veo a otros padres reñir sus niños me sorprendo siempre del resultado (por lo menos a corto plazo) que tiene una bronca. Por lo menos hay una respuesta al enfado, aunque no siempre sea la deseada, porque a ningún niño le gusta ver a los padres enfadados. Reñir, levantar la voz, enfadarse o amenazar un castigo o un cachete en el culo, en nuestro caso, solo tenía como resultado una escalada exponencial de la crisis y del descontrol, con el riesgo añadido de desencadenar reacciones de autolesionismo, frecuentes en niños con autismo, y que Diego consigue evitar. Muchas veces he envidiado a los padres que pueden reñir a sus hijos (aunque en general está más que demostrado que las broncas solo son parches que a la larga resultan dañinos) porqué el enfado es una prodigiosa válvula de escape para los nervios de los padres, y al surtir una reacción les da por lo menos la percepción de tener algún tipo de control sobre la situación. Nosotros teníamos que comernos los nervios y aguantar horas de gritos y resistencias. Cuando lo conseguíamos, acabábamos agotados, y cuando perdíamos la calma, agotados y desmoralizados. Pero la estrategia aprendida nos daba un protocolo de actuación y es más fácil permanecer centrados si hay un protocolo.
Algunos días después de haber puesto en marcha las pautas, las rutinas empezaron a ser un poco más fluidas, menos largas y menos angustiosas. Una noche, cuando llegó la hora del bañito, hubo un poco de oposición para desvestirse y entrar en el agua, y luego a salir y a ponerse el pijama, pero entre todos conseguimos a mantener el nivel de crisis muy bajo, a respetar los tiempos necesarios a aceptar cada paso, a premiar en el momento adecuado y a evitar la escalada de reacciones. El esfuerzo de Diego era evidente. Cuando conseguimos poner el último calcetín, se quedó sentado y concentrado unos segundos, en lugar de coger su premio. Creímos que iba a gritar y a intentar quitarse algo, pero nos miró durante una fracción de segundo y luego dijo con mucha calma: “Diego contento”.
Fue una patada en el estómago, un puñetazo en plena cara, un atropello de los que te descoyuntan todos los huesos del cuerpo. Fue tener que mirar sin escapatoria o atenuantes todo lo inadecuado que se pueden llegar a ser dos adultos que tienen en estatus de padres solo porqué la biología les ha permitido traer un niño al mundo. Solo esperamos que, a pesar de su memoria prodigiosa, también el cerebro de Diego tenga esa grata función que hace olvidar muchos de los momentos malos, y que de mayor se recuerde más de cuando lo hemos hecho bien que de cuando no estuvimos a la altura.
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Nei giorni successivi, riunimmo tutta la pazienza possibile e applicammo in casa le strategie imparate nella sessione di terapia. Per evitare di sentirci incalzati dall’orario, di mattina toglievamo l’orologio per poter dedicare alla routine del vestirsi tutto il tempo necessario. Preparavamo due alternative per ogni capo in modo che Diego potesse scegliere, per dargli un po’ di margine e ridurre la pressione, ma procuravamo presentargli a rotazione tutte le magliette e i pantaloni che aveva, per vincere la sua rigidità. A volte gli toccavano due alternative ugualmente odiate, e si arrabbiava, ma applicando il metodo dell’avvicinamento graduale e dei premi finiva per indossare tutto, in un tempo più o meno lungo.
Mantenere la calma era, per noi, la sfida più grande. Lo è tutt’ora, perché le crisi e i periodi neri tornano ogni tanto, e il consumo emotivo e psicologico in quei momenti è brutale. Quando vedo gli altri genitori sgridare i propri figli mi sorprendo sempre del risultato (per lo meno a breve termine) che sortisce una sfuriata. Per lo meno c’è una risposta all’arrabbiatura, anche se non sempre è la risposta desiderata, perché a nessun bambino piace vedere i genitori arrabbiati. Sgridare, alzare la voce, arrabbiarsi o minacciare un castigo o una sculacciata, nel nostro caso, provocava come unico risultato una escalation esponenziale della crisi e della perdita di controllo, col rischio aggiunto di scatenare reazioni di autolesionismo, che sono frequenti in bambini con autismo, e che Diego è sempre riuscito a evitare. Molte volte ho invidiato i genitori che possono sgridare i loro figli (anche se in generale è stato ampiamente dimostrato che le sgridate sono solo rattoppi che alla lunga risultano solo dannosi) perché l’arrabbiatura è una valvola di sfogo prodigiosa per i nervi dei genitori, e al provocare una reazione gli da per lo meno la percezione di avere un qualche tipo di controllo sulla situazione. Noi dovevamo ingoiare il nervoso e sopportare ore di grida e resistenze. Quando ci riuscivamo, terminavamo esausti, e quando perdevamo la calma, esausti e demoralizzati. Ma le strategie imparate costituivano un protocollo di azione, ed è più facile rimanere concentrati se c’è un protocollo a cui attenersi.
Dopo alcuni giorni dalla messa in pratica delle strategie, le routine cominciarono a essere un po’ più fluide, meno lunghe e angoscianti. Una sera, al momento del bagnetto, ci fu un po’ di opposizione per svestirsi ed entrare in acqua, e poi per uscire e mettersi il pigiama, ma tra tutti riuscimmo a mantenere il livello della crisi molto basso, a rispettare i tempi necessari per accettare ogni passo, e premiare nel momento giusto, evitando così la escalation di reazioni. Lo sforzo di Diego era evidente. Quando riuscimmo a infilargli l’ultima calza, rimase seduto e concentrato alcuni secondi, invece di prendere subito il suo premio. Credemmo che avrebbe cominciato a gridare e a cercare di svestirsi, e invece ci guardò per una frazione di secondo e poi disse con molta calma “Diego contento”.
Fu come un calcio nello stomaco, un pugno in piena faccia, un tir che ti investe e ti scardina tutte le ossa. Fu dover vedere senza scappatoie o attenuanti quanto inadeguati possono essere due adulti che hanno lo status di genitori solo perché la biologia gli ha permesso di mettere al mondo un bambino. Speriamo solo che, nonostante la sua memoria prodigiosa, anche il cervello di Diego possegga quella grata funzione che fa dimenticare molti momenti brutti, e che da grande si ricordi delle volte in cui siamo stati in grado, più di quelle in cui non siamo stati all’altezza.